Il Consiglio dell'Autore, Il Mantello di Porpora


IL MANTELLO DI PORPORA
Ascesa e Caduta dell'Imperatore Giuliano
di Luigi De Pascalis.


La narrazione del "Mantello di porpora" si basa su due manoscritti: il primo opera dell'eunuco Evemero, schiavo e segretario di Giuliano, e il secondo di Mardonio, figlio misconosciuto dell'imperatore. È il romanzo dell'ascesa e della caduta di Giuliano l'Apostata, l'ultimo imperatore che cercò di difendere la civiltà pagana. Ma è anche il racconto drammatico della fine di un mondo e dell'inizio di una nuova era. Giuliano, ispirandosi a Marco Aurelio e ad Alessandro il Grande, cercò di realizzare il suo sogno neopagano, ma morì in battaglia, forse per un omicidio destinato a restare impunito. La sua morte segnò l'inizio di un processo irreversibile: la vittoria del cristianesimo e della Chiesa.





Ecco l'Attore! Racconto di Gianluca Paolisso

Dedicato al grande Maestro Eduardo De Filippo ...

Quella sera, la luna apparve tutta intera su Roma: il traffico, i monumenti, le vie, la gente, il verso dei gabbiani sulle acque scure del Tevere ... tutto come ogni sera. Il cielo era cosparso di nuvolaglie color indaco, che spinte dal vento camminavano nell'immenso silenzio di quel blu scuro, alterato solo da qualche sfumatura di azzurro chiaro. 
In una macchina, Eduardo leggeva un giornale: molte volte, sollevando il capo, contemplava le mille luci della città: un pittore avrebbe certamente saputo catturare tutta quella bellezza, dipingendola su una tela; un cantautore, accompagnato dal suo strumento, avrebbe potuto scrivere parole e melodie irripetibili. Ma lui no: era un attore. Il suo compito era un altro. 
<<Siamo arrivati? - chiese all'autista.
<< Quasi, Maestro. - Quell'appellativo lo faceva rabbrividire ogni volta: un brivido di piacere mescolato a disgusto. Era consapevole di non essere il primo arrivato, ma l'umiltà che caratterizza i grandi attori quasi gli imponeva di compiere un deciso passo indietro, di fronte alle lusinghe di gente inesperta. Scosso leggermente il capo.
<< Maestro - chiese ad un tratto l'autista, guardando sempre avanti a sè - posso farle una domanda?
<< Certo.
<< Cos'è per lei il teatro? - Eduardo rimase sinceramente turbato da quella domanda, nonostante conoscesse bene la risposta.
<< Bè, il teatro è dove vivo.
<< In che senso?
<< Nel senso che è il luogo dove mi sento maggiormente a mio agio: il palcoscenico è la mia strada ... lì passeggio tranquillamente e so precisamente cosa fare.
<< Capisco.
<< Nella vita reale sono uno sbandato. - Si passò una mano fra i capelli: erano il simbolo della sua esperienza ... erano bianchi. Trent'anni ... sembravano un numero astratto, inconsistente ... : molte volte non ci rendiamo conto che il tempo ha un suo peso: ci accorgiamo della sua esistenza solo guardandoci allo specchio. 
<<Bè, in compenso ora mi chiamano Maestro ... - pensò Eduardo, sorridendo sotto i baffi. Questi e una miriade di altri pensieri lo accompagnarono per tutto il viaggio: ad un tratto sentì la macchina fermarsi con un rumore che in quel momento gli parve assai acuto. Lentamente riaprì gli occhi: buio pesto.
<< Che ore sono?
<< Le otto e venti. 
<<Tanto la gente arriva sempre in ritardo ... - Eduardo scese dalla macchina insieme al giovane ragazzo che lo aveva accompagnato.
<< Bè, Maestro, buona fortuna. - disse l'autista, stringendogli la mano.
<< Grazie. E tu lo vedrai lo spettacolo?
<< Magari potessi!
<< Perchè, non puoi?
<< Purtroppo non ci è permesso, sul lavoro: forse tornerò la prossima volta con mia moglie e i bambini >>. Eduardo gli diede una pacchetta sulla spalla, poi si avvicinò verso l'entrata degli artisti, posta sul retro del teatro. Varcata la soglia, fu accolto molto calorosamente dall'impresario, il quale gli fece tanti di quei complimenti che, alla fine, dovette riprendere fiato. 
-<<Grazie - si limitava a rispondere Eduardo - Ora però dovremmo cominciare.
<< Oh, certo! Vada, vada, e scusi tanto, ma sa, quando comincio a parlare, non riesco più a smettere.
<< Si figuri.
<< Buona fortuna! >>.
 Incamminandosi nel lungo corridoio che ben conosceva, Eduardo si torse violentemente il bavero della giacca, infastidito da quei "buona fortuna" che secondo lui non avevano motivo di essere pronunciati - Il teatro non è questione di fortuna - pensò.
Alla fine del corridoio, svoltando a sinistra, ci si ritrovava davanti a vari camerini, da cui provenivano suoni mesti di voci. Eduardo entrò velocemente nel suo: una stanza di media ampiezza, con al centro una semplice toletta illuminata fiocamente dalle lampadine poste intorno lo specchio; sedendosi, per un momento, ripensò ai suoi primi anni di teatro: in quel tempo non ci si preoccupava più di tanto del lato estetico dell'attore; le compagnie di girovaghi avevano ben altre cose a cui pensare, durante i loro quotidiani viaggi.
Iniziando a sfumare le sopracciglia con una matita nera, Eduardo cominciò ad avvertire il tipico fremito che precedeva ogni spettacolo: partiva dal collo e arrivava fino alle gambe, provocando in lui una strana sensazione di freddo: con gli anni era riuscito a domarlo, ma mai a cancellarlo completamente. Poi venne il momento del trucco rosso sotto gli occhi, e di nuovo compì un viaggio nel ricordo: suo padre ... un uomo severo, rigido e fermo sulle proprie posizioni; ancora rivide quel tavolinetto dove per ore e ore sotto il suo sguardo vigile, era costretto a riscrivere interamente commedie o altri testi teatrali. Non lo aveva mai maledetto per questo, anzi, lo benediva ogni giorno per quelle apparenti torture che lo avevano temprato nel carattere e lo avevano reso più forte. Mai alzava gli occhi dal foglio e mai si azzardava a posare la penna per far riposare la mano. A dieci anni conosceva a memoria le parti di tutti i personaggi delle più grandi opere teatrali mai scritte in ogni tempo. E adesso era lì: il braccio si muoveva ancora, ma non per scrivere. I colori conferivano al suo volto la stanchezza, stato tipico dei personaggi da lui creati. 
Dopo aver indossato la giacca volutamente sporca e aver preso il cappello, sedette nuovamente di fronte allo specchio, in attesa che lo chiamassero.
"Perchè così tanti pensieri, questa sera sera? Ho ripercorso tutta la mia vita, e stranamente non sono stanco! E poi, diamine, dovrei essere abituato a questo tipo di momenti: non è certo il mio primo spettacolo! Dovrei essere privo di ansia, tranquillo ... o forse è proprio l'ansia che rende grande l'attore? Sì, è così: se dopo tanti anni non ci si emoziona più davanti al pubblico, significa che in realtà non si è mai provato niente di vero in quello che si diceva, in quello che si interpretava. Se non si prova una seppur minima paura, tutto diviene un puro artifizio. Sì, il grande attore è ansioso e pauroso ... come me!". Eduardo non mancava certo di modestia.
<< Scostumatone ... - sussurrò allo specchio.
Dopo qualche minuto uscì dal camerino.
Salita una piccola scalinata, sentì sotto i suoi piedi le tavole di legno del palcoscenico: ogni volta provava mille emozioni e sempre con un'estrema delicatezza si accingeva a compiere il minimo movimento.
<< Pronti? >> chiese ai suoi attori. Tutti annuirono prontamente. Sorridendo, Eduardo pensò a quanto lavoro c'era dietro quella risposta affermativa. Poi guardò il sipario chiuso: tra le pieghe di quel rosso scuro avrebbe voluto perdersi; le toccò delicatamente con una mano, sentendo sui polpastrelli delle dita la dura ruvidezza della stoffa." Quante volte l'ho visto aprire e poi chiudersi ... - pensò - In teatro le scene cambiano, ma spesso il cuore dell'attore resta immutato".
Sentiva le voci della gente che stava arrivando, e furtivamente scostò un lembo del sipario: la curiosità non moriva mai in lui. Eduardo vide il suo pubblico: chiassoso, disordinato, ritardatario, ma sempre immenso di cuore e riconoscenza. Con un gesto repentino tornò al centro del palcoscenico, dove tutti gli attori discutevano fra loro nella quasi totale oscurità.
<< Maestro.
<< Dimmi, Gianni.
<< Prima dello spettacolo, esca fuori a prendersi l'applauso del pubblico.
<< Come mai me lo ricordi? Sono trent'anni che lo faccio.
<< Non so, questa sera la vedo strano.
<< Strano? Mah, forse.
<< Vada: la aspettano.
<< Io sono solo un tramite, caro Gianni: non aspettano me, ma il mio personaggio >>.
 Si passò una mano fra i capelli, chiuse gli occhi per un momento, poi li riaprì. Lentamente superò la barriera rossa che lo divideva dalla folla. All'improvviso, si rese conto della propria responsabilità, e divenne consapevole della propria parte nella finzione: gli applausi sembravano pioggia che batte sui vetri di una finestra, le voci che acclamavano piccoli sprazzi di vento in una tempesta di emozioni. Eduardo pensò che un bravo pittore avrebbe saputo certamente catturare tutta quella bellezza, dipingendola su una tela; un cantautore, accompagnato dal suo strumento, avrebbe potuto scrivere parole e melodie irripetibili. Ma lui era un attore: il suo compito era un altro. La realtà lo chiamava perchè lui la raccontasse in tutta la crudezza che la caratterizza.
Il buio della sala era un baratro infinito, le luci come tante piccole stelle luminose; i minuti lo inseguivano senza pietà. Per un momento Eduardo si sentì confuso, e gli parve di sentire la porticina del palcoscenico chiudersi dietro di lui, con un tonfo. Pianse, alzando le braccia verso il pubblico. Improvvisamente, sentì il campanello squillare: una volta, due volte ... poi il sipario si alzò. Eduardo, muovendosi verso il centro della scena, mormorò a se stesso <<Ecco il teatro! Ecco l'attore! >>.



 

 

I "Titoli di Coda" della nostra vita, Recensione di G. Paolisso


Riflessioni sul romanzo "Sofia nel mio Autunno Nevrotico",

di Chiara Apicella ( Lantana Editore ).

 
Due generazioni a confronto apparentemente distanti, ma solo per anagrafe. Questa potrebbe essere una parziale sinossi, se mai ce ne fosse bisogno, dei due personaggi primari in "Sofia nel mio Autunno Nevrotico". Da una parte Cinzia, donna in viaggio oltre gli aspri confini dei cinquanta anni, alle prese con disperati tentativi di "femminilità rispolverata"  dopo un lungo periodo di solitudine, dall'altra Daria, figlia dal carattere complesso e variegato, semplicisticamente definita "nerd dei nostri tempi". Tra le due donne, così come tra tutte le altre figure del romanzo, avvertiamo la presenza di un muro invisibile quanto difficile da abbattere, prima "malattia dello spirito" dei nostri tempi: qualcuno la chiamerebbe incomunicabilità, o forse incapacità di esprimere le proprie emozioni. Eppure l'arcobaleno ha tanti colori e sfumature. Se ci addentriamo tra le pagine del romanzo, dense di alta sapienza narrativa e traboccanti di una sottile e spiccata ironia, ci accorgiamo che la contemporaneità porta inevitabilmente con sé una reale difficoltà nel comprendere gli spazi oscuri e luminosi dell'animo altrui, una inconoscibilità di quello che potrebbe essere definito "il giusto approccio".
Nel romanzo di Chiara Apicella aleggia l'incapacità di una parola che centri "il punto" di un problema, la tenerezza della menzogna che nasconde una verità scomoda e forse dolorosa, la ritrosia nel lasciarsi andare all'ultima goccia di bellezza presente nel mondo, ma soprattutto lo struggente racconto di un amore che in fondo non ha niente di diverso dagli altri. Non perché questo amore di Daria sia inconsciamente rivolto a una donna, Sofia, questo personaggio volutamente etereo come una nuvola o come il sole prima del tramonto, ma per il semplice fatto che i suoi sintomi sono i tipici sintomi che ognuno di noi ha provato o proverà nella vita. Questo rapporto suggellato da silenzi, sorrisi e piccoli contatti ci riporta ad una consapevolezza che forse avevamo perso: l'amore non è patire l'altro, ma sentirsi letteralmente inadeguati di fronte all'altro.

 
"Sofia nel mio Autunno Nevrotico" presenta una "poetica delle piccole cose", a mio avviso la più difficile da rendere sulla pagina: ogni singola azione, anche la più semplice, diviene per la scrittrice spunto di immagine e riflessione; ogni descrizione è accurata eppure semplice, come se la penna non volesse mai dimenticare che i migliori spunti poetici nascono dalla stessa crudezza e volubilità del reale. Nessun viaggio eccessivamente onirico, insomma, ma un'indagine spensierata quanto profonda della natura umana.
Tra un campo lungo e un dolly assistiamo allo scorrere di un'umanità multicolore, eppure accomunata dalle stesse pressanti incertezze che travalicano le differenze di età, sesso o religione. Di fronte all'altro spesso ci si sente inadeguati, impreparati, ma si spera sempre che prima o poi possa giungere il tanto agognato momento dei "titoli di coda", quell'attimo nel quale tutto potrebbe fermarsi, concludersi, perché la felicità ha già toccato il suo apice. Tra le pieghe più riposte del nostro animo, il romanzo di Chiara Apicella chiede ai lettori:" Avete già trovato i vostri "titoli di coda"? E se sì, quanto li avete aspettato, quanto avete sofferto durante l'attesa? Quante nevrosi avete superato pur di vivere quei dieci secondi di pace assoluta?". Ecco, queste sono le domande che a mio parere un buon libro dovrebbe sempre porsi e riproporre a chi scorre le sue pagine ... sì, come se fosse una persona viva!
"Sofia nel mio Autunno Nevrotico", un romanzo che oserei definire un piccolo capolavoro dei nostri tempi, che dona nuova luce ad un panorama editoriale quanto mai arido e che fa ben sperare per il nostro futuro poetico e letterario. Se, come affermava Mallarmè, il mondo è stato fatto per approdare ad un libro, spero possiate atterrare dolcemente su quello di Chiara Apicella e imbarcarvi in un viaggio incantato, alla fine del quale forse qualcosa cambierà dentro di voi, e in meglio.

Buona lettura!

Vindiciae, sentenza, Racconto storico di G. Paolisso

 
“Aveva sessantaquattro anni … ” – Plutarco, vita di Cicerone
 
Terenzia … cos’è Roma?
E' un’idea. Un piccolo passo verso il cielo.

Dalla terrazza della sua villa, Cicerone osservava il mare, distante pochi passi: una tavola d’azzurro lacerata dai raggi di un sole fugace, che a stento riusciva a scardinare l’aspro dominio delle nuvole. Una leggera brezza accarezzava gli alti pini che, come lance, sembravano bucare il cielo al pari della carne di un barbaro. Sorridendo, Cicerone pensò che il brusio delle piccole onde infrante sulla spiaggia antistante era molto simile alle acclamazioni del pubblico nel Foro: brevi ma intense, violente, carnali come l’amore di una donna. I pensieri si confondevano tra le mille voci del popolo, assetato di gloria e giustizia: solo il momentaneo ritorno del silenzio trasformava la confusione in consapevolezza:” Sono solo un attore … un attore che ha sempre interpretato alla perfezione le parti assegnategli dallo Stato, niente di più”.
Cicerone si guardò intorno, sospirando: amava quasi alla follia la natura incontaminata di quelle terre, così lontane dai pericoli di Roma, una città che oramai non riconosceva più. La Repubblica moriva pian piano sotto il giogo delle liste di proscrizione, in cui figurava anche lui, l’antico pater patriae che aveva salvato la città da un uomo come Catilina, dèmone immondo che adesso qualcuno addirittura rimpiangeva. Il ricordo di quelle imprese sbiadiva come la giovinezza, trascinate al cospetto di Plutone dall’eterno incedere del tempo.
Un gracchiare improvviso riscosse Cicerone dai suoi pensieri: decine di corvi si erano appollaiati al suo fianco, aprendo le ali e beccando la sua toga senatoriale come indispettiti. Qualsiasi aruspice avrebbe detto che si trattava di un cattivo presagio, un presagio di morte: nonostante fosse poco superstizioso, in quel momento pensò che gli Dèi volessero ricordargli la sua fine imminente:” Non si può sfuggire al destino, lo so”. In un impeto d’ira, scacciò quegli uccelli portatori di morte con un grido che lacerò l’aria come una lama affilata, poi rientrò in casa, assaporando un intenso profumo di viole. Si distese sul letto, avvertendo improvvisamente il peso della stanchezza: aveva passato le ultime sette notti senza chiudere occhio, organizzando con i servi più fedeli la fuga verso le sue tenute formiane: il viaggio si era rivelato più difficile del previsto, a causa dei capricci più o meno intensi del mare, che avevano messo il suo stomaco in subbuglio. Adesso poteva concedersi qualche attimo di riposo.
La politica è sempre stata la mia maschera migliore, quella che tutti volevano ammirare nei suoi cambiamenti espressivi, tra le ombre inconsistenti del Campo di Marte … oramai i protagonisti di quel tempo sono scomparsi: Ortensio, Catulo, Hybrida, Sacerdote, sono cenere mescolata ad altra cenere. I lastricati marmorei del Foro non sono più la mia casa. Il Cicerone che tutti hanno conosciuto non esiste più: rimane solo un uomo che ricorda con nostalgia la propria famiglia e i propri amici, che piange ancora una figlia, morta nel dare la vita. Tullia, anima mia, presto torneremo a sfiorarci dolcemente e, chissà, forse abbraccerai le mie ginocchia come spinta da un istinto primitivo, ricordando le tiepide mattine in cui giocavi spensierata tra le braccia di tua madre. Parleremo come allora di tutte le cose che osservavi con il tipico stupore infantile, e rideremo del tempo immobile che avvolgerà le nostre anime. Rideremo,anima mia, non è vero? Rideremo …?”.
<< Padrone! – Cicerone scattò in piedi come un giovincello animato dal desiderio: Filologo, uno dei suoi servi, ansimava davanti a lui, la fronte madida di sudore.
<< Cosa …
<< Padrone, stanno arrivando! – Cicerone si passò una mano sulla fronte, ancora perso nelle ombre del passato. Ad un tratto, la luce di un lampo squarciò lo spesso grigiore delle nuvole. Era tornato alla realtà.
<< La lettiga è pronta?
<< Sì, padrone.
<< La nave?
<< Pronta a salpare >>. Seguito da Filologo, Cicerone attraversò la villa immersa nel silenzio fino ad un’uscita posteriore dove, come previsto, l’attendeva la lettiga e quattro servi atti al trasporto. Cicerone vi salì senza esitazioni: i capelli arruffati e il pallore del viso lo rendevano simile ad un’anima dell’Oltre Tomba. Solo la toga evidenziava il suo rango sociale, ormai privo della minima importanza.
<< Padrone …
<< Nessun addio dovrebbe essere così precipitoso – mormorò Cicerone, scuro in volto.
<< I disegni degli Dèi sono imperscrutabili.
<< è così … Filologo, ti ricordi quando ti dissi di non piangere?
<< Avete ragione … – disse lo schiavo, asciugandosi le gote umide con l’avambraccio – “le lacrime sono il sintomo più evidente della debolezza umana”.
<<  Mi sbagliavo. Le lacrime, ancor più dei sentimenti, rendono l’uomo superiore alle bestie. Piangi, Filologo, piangi … almeno ricorderai sempre di essere un uomo >>.

I viali ombrosi si intersecavano tra loro a creare un labirinto di piccoli boschi: i voli e i cinguettii dei cardellini erano coperti dal rombo spumoso del mare, agitato e nero come una notte senza stelle. Una pioggerellina fitta come miriadi di frecce si abbatteva sulla terra già umida, desiderosa di vita. Il cielo color rame sprizzava lampi di luce a intermittenza.
L’umidità accentuava ancor di più i dolori corporei di Cicerone, che si dimenava all’interno della lettiga alla ricerca di una posizione accettabile. I servi correvano sotto il peso del legno e del suo corpo, cercando di evitare possibili dossi o buche nel terreno. I loro gridi di fatica e dolore si perdevano nella nebbia.
Cicerone notò, in direzione della sua villa, una lunga scia di fumo nero sollevarsi lentamente verso il cielo: i sicari di Antonio, ottenute con il fuoco e con la spada le informazioni riguardo la sua improvvisa scomparsa, si lanciavano ora verso il mare. E i loro bai da guerra sapevano colmare bene le distanze. Cicerone incitò i servi ad andare più veloce: pochi passi lo separavano dal mare … e dalla salvezza.
Improvvisamente un grido squarciò l’aria: il grido di Erennio. Il rumore degli zoccoli si avvicinava sempre più, come un terremoto lento e devastante. Cicerone udì un sibilo, poi una freccia si conficcò nel legno della lettiga, a pochi centimetri dal suo braccio. Dopo un attimo di smarrimento, i suoi occhi tornarono quelli di un tempo: profondi, imperscrutabili, letali. Improvvisamente il suo corpo riprese il vigore tipico delle migliori giornate forensi; i dolori erano svaniti come neve al sole. Rinasceva a pochi istanti dalla fine.
Che diavolo sto facendo? Ho dimenticato veramente chi sono? No … sono Cicerone, il primo avvocato di Roma, il più grande oratore che la storia abbia mai conosciuto! Il potere è assetato di sangue: ora vuole il mio, a qualunque costo, ed io non posso impedirlo. è inutile tentare ancora di fuggire a ciò che è stato già scritto … la spiaggia è a pochi passi, ma non sentirà mai il peso del mio corpo; la nave già pronta non salperà mai. Riposerò qui, su questa terra, sotto questo cielo. Basta, basta fuggire!”.  Sporgendosi dalla lettiga, fu investito da vento gelido e pioggia. Non si coprì il volto: in quel momento era insensibile a tutto ciò che lo circondava.
<< Fermatevi! – intimò ad uno dei suoi servi, ridotto ad una maschera di sudore e polvere.
<< Padrone, sono vicini!
<< Ho detto fermatevi! – Il servo ripetè l’ordine agli altri tre, che lentamente deposero la lettiga a terra. Cicerone rimase lì, immobile come una statua.
Erennio, accompagnato da altri dieci uomini armati, si stupì nel vedere la lettiga di Cicerone ferma a pochi passi dalla spiaggia. La nave che avrebbe dovuto ospitare l’oratore nella sua fuga si piegava impotente al volere delle onde.
“Meglio così – pensò Erennio, asciugandosi il naso con l’avambraccio – è più facile uccidere con il consenso della vittima”. Smontò da cavallo, accompagnato dai suoi uomini, poi si diresse verso la lettiga, dove quattro schiavi pregavano in lacrime di non essere uccisi. Non dovevano rimanere testimoni, questi erano gli ordini. La pietà era una concessione proibita. Diede il segnale. In pochi minuti la terra si tinse di rosso. Cicerone osservò la scena in silenzio, il mento appoggiato sulla mano sinistra, nella tipica posa ironica che suscitava tanta ilarità durante le arringhe lente e dispersive di Ortensio.
Erennio gli si avvicinò, salutandolo con un cenno del capo. Cicerone rispose allo stesso modo, sorridendo, apparentemente sereno.
<< E' la giustizia di Roma, Cicerone … – esordì Erennio, mostrando la scure che teneva fra le mani.
<< No: è la giustizia di Antonio.
<< Preparati a raggiungere i tuoi avi.
<< Morirò per la terra che io stesso ho salvato >>.

Poco prima di morire, Cicerone ripensò alle ore di festa che seguirono la vittoria contro Verre: durante il pranzo, tra grida e ovazioni di gioia, aveva chiesto alla moglie:<< Terenzia, cos’è Roma?
<< E' un’idea – aveva risposto lei, accarezzandogli i capelli – un piccolo passo verso il cielo >>.
Contemplò per attimi che gli parvero eterni il suo volto riflesso nel metallo lucido della scure, che si sollevò lentamente nel vento di tramontana, pronta a colpire.
Cicerone mormorò, sorridendo:”Vendetta”. Il buio … e poi più nulla.


Saffo o il volo dell'Acrobata, di Simona Zacchini

Ispirato a Fuochi di Marguerite Yourcenar
con Manuela Kustermann

Fuochi si presenta come una raccolta di prose liriche, appunti di diario e racconti tratti dalla leggenda e dalla storia. E’ forse la più rarefatta e insieme autobiografica tra le opere della Yourcenar.
“Ho scelto Fuochi perché permette un avvicinamento alla lirica della grande scrittrice con uno stile che definirei ’visionario’. Essendo costruito come un testo di frammenti di prosa e poesia, invita ad un uso teatrale che non segue le regole tradizionali, ma si basa su suggestioni visive che ne fanno una perfetta tavolozza da usare come un puzzle.”
Manuela Kustermann
“Non c’è nulla da temere. Ho toccato il fondo. Non posso cadere più in basso del tuo cuore.”
Marguerite Yourcenar
Note di regia
SAFFO O IL VOLO DELL’ACROBATA è una partitura drammaturgica per attrice solista, ispirata a uno dei racconti che compongono FUOCHI, l’opera forse più poetica e visionaria di Marguerite Yourcenar.
Lo spettacolo concepito per e con Manuela Kustermann, racconta le vicende di Saffo, la grande poetessa greca che, nell’invenzione letteraria della Yourcenar, assume le sembianze di un’artista del Circo, un’acrobata. Così come Antigone, Pentesilea, Clitennestra, Maria Maddalena, le mitiche eroine reinventate dalla scrittrice francese, anche Saffo viene strappata al suo passato e catapultata nella contemporaneità.
Il mondo che la accoglie è caotico, ostile, pieno di insidie e “di polvere”. Soltanto l’arte circense offre riparo e conforto ai tormenti dell’amore. Atene, Alessandria, Istanbul sono alcune delle città che ospitano, di volta in volta, il grande Circo dove Saffo si esibisce in numeri straordinari. E sullo sfondo di queste città affollate e rumorose si consumano gli amori difficili della poetessa-acrobata; quegli amori in cui l’eterna lotta tra eros e thanatos ogni volta si rinnova.
Attide, la fanciulla dei fiori, sarà la causa scatenante che indurrà Saffo a lanciarsi nel vuoto, proprio come lola Montes, la celebre avventuriera del magnifico film di Max Ophuls. L’attrice solista dà corpo alla voce della Narratrice e a quella di Saffo.
Le due voci non sono altro che le facce di una stessa medaglia. Il racconto della Narratrice si alterna al monologo interiore di Saffo, in un progressivo crescendo che permette alle due voci di compenetrarsi.

Gianluca Paolisso e Chiara Apicella presentano "La Profezia dei Fiori"

Per due pomeriggi nel prossimo mese di Maggio, Gianluca Paolisso vestirà i panni di relatore in un'occasione quanto mai speciale: la pubblicazione del nuovo romanzo di Adriano Petta, La Profezia dei Fiori!
Prima data: 12 Maggio, ore 17.30, LIBRERIA ODRADEK (Via dei Banchi Vecchi 57 - Roma) in compagnia di Chiara Apicella, giovane autrice del romanzo "Sofia nel mio Autunno Nevrotico".
Autori della nuova generazione accompagnano un celebre scrittore ( oltre 80.000 copie vendute con la sua "Ipazia, vita e sogni di una scienziata del IV sec." ), in una serata all'insegna della riflessione su temi portanti della modernità quali l'inquinamento atmosferico, la disuguaglianza sociale e molto altro.
Seconda data: 16 Maggio, ore 18.00, LIBRERIA DI MARGHERITA ( Via Rubino - Formia ): questa volta Gianluca Paolisso sarà accompagnato dal valente contributo del Professore e Poeta Giuseppe Napolitano.
Vi aspettiamo numerosi!

Gianluca Paolisso e Adriano Petta in occasione della Presentazione di "Saffo" (Edizioni di Karta) presso la Libreria-Caffè Letterario "Mangiaparole" - Roma.